Letteratura dell’11 settembre: storie dalle macerie delle Torri Gemelle

Letteratura dell’11 settembre

Vedute da Ground Zero

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Ho visto un tronco cadere dalla torre – niente gambe – niente testa – solo un tronco. Sono ridondante perché non posso credere a quello che ho visto. Ho visto un tronco cadere – niente gambe – niente testa – solo un tronco – precipitare nell’aria – vestito con una camicia bianca bianca – la camicia dei manager – infilata – per bene – sotto la cintura – allacciata stretta – che gli tiene su i calzoni, senza gambe. Aveva urtato una trave d’acciaio – ed era morto – un ducato che è morto, morto! – sul pavimento del negozio Krispy Cream – con ciambelle inzuccherate al posto della testa – appena sfornate, croccanti e rotonde – calde e gustose – e questo manager – a terra stringeva in mano una ventiquattrore – e all’anulare, la fede nuziale. Immagino che abbia pensato che la ventiquattrore fosse la sua sorte – o la sua consorte – o che fossero un tutt’uno – perché la valigia era stretta con forza come la fede di nozze.

Ho visto la moglie di questo manager entrare nel negozio di Stanley il Calzolaio, con un biglietto rosa in mano. Era andata a ritirare le scarpe del manager. Dopotutto avevano trovato i piedi, e lei voleva seppellire i piedi con le scarpe. Ero lì, a parlare con Stanley il Calzolaio, perché anch’io dovevo lasciare le mie scarpe, un paio di stivali rosa, al negozio di Stanley. Mi disse – non crederai a quello che ho visto. Ho visto Charlie, il proprietario del Bar e Grill Saint Charlie, assistere al funerale del ventesimo secolo. Va fuori ad appendere il cartello cessata attività, guarda in alto, e il carburante dell’aereo brucia e fonde Charlie. E lo sai come, come è arrivato a terra il tronco, come è atterrato? Quello che ho visto arrivare a terra era una piccola bolla di sangue, uno splash quasi impercettibile, silenzioso, che si scioglie nel cemento, e si disfa senza rumore.

Ho visto un passeggero sospeso sull’orlo di un ponte – con i piedi all’aria – le gambe scalcianti – e tutte e due le mani aggrappate a una trave d’acciaio che penzolava staccata dal ponte – prossimo a cedere – con il passeggero – che scalciava con le gambe – come se potesse farsi largo a destra e a manca fino dall’altra parte – dove c’è sabbia lieve e acqua – acqua profonda – come se potesse nuotare fino alla riva e rimanere vivo. L’epoca del cammello è tornata, e della sabbia. L’epoca della difficoltà. Ora devi scalare dune sabbiose di mattoni e calce. Le strade non sono piane, ma fitte di barricate, tunnel e solchi, e devi camminare in mezzo alla confusione, e a volte ti sentirai perso dentro, senza vedere la fine – né un’uscita – e cadrai nella disperazione – ma vedrai un velato fascio di luce – che appare e scompare – e quando svanirà – la tua speranza svanirà – e ti scoprirai sorpreso – perché sarà la tua andatura a cambiare. E penserai – ero sempre Lepre Elegantona e ora sono Tartaruga Compagnona – non che io abbia smarrito la strada – solo l’andatura – per via del corpo morto che mi porto sulla schiena – sulla gobba del cammello – nella tempesta del deserto – senza oasi in vista – se non la luce sorridente della terra promessa.

Ho visto un bellissimo dagherrotipo di un poeta, nella vetrina di un negozio. Non ho la certezza se fosse Baudelaire o Artaud – aveva gli occhi di Baudelaire – il naso e la bocca di Artaud – era un miscuglio – ero divertita e perplessa. Cosa ci fanno i miei maestri nella vetrina di A La Vieille Russie? Sono entrata e con mia sorpresa dietro il bancone c’era Vasily Vasilich Gurevich, proprietario dell’Optik di New York, fra la Madison e Park Avenue, sulla 58esima strada. Avevo acquistato da lui una collezione di occhiali antichi provenienti dalla Russia, dalla Francia e dalla Cina. L’ho riconosciuto subito, e gli ho detto:

“Gurevich, che ci fai qui? Gli affari ti devono andare bene. Congratulazioni! Ora hai due delle migliori boutique ”.

“Non proprio, Brasky. Il mio Optik ho dovuto chiuderlo”.

“Oh, no, il mio Optik”.

“L’economia, Brasky. Dopo l’11 settembre, in tre mesi non ho venduto un paio di occhiali. Se non è made in USA, non si muove. Non potevo più pagare l’affitto. Ho dovuto chiudere e trovarmi un lavoro qui. Guarda questo armadietto. Ci ho messo gli occhiali del mio Optik. Prova questi”.

“No, quello che adoravo era il posto. L’esperienza teatrale. Non è solo per gli occhiali, è dove li appendevi. All’orbita di un teschio, quello era speciale”.

“Brasky, se ti dicessi che era di Sarah Bernhardt, ci crederesti?”

“Quel paio di occhiali?”

“Il teschio. Guarda, c’è un’iscrizione dietro. Squelette, qu’astu fait de l’ame [1]. Fu un regalo di Victor Hugo a Sarah Bernhard. Faceva parte dell’arredo scenico per la sua leggendaria messa in scena dell’Amleto. Lo sai, Brasky, gli inglesi criticarono la Bernhardt perché era troppo bianco e pulito – e non era credibile che questo teschio bianco potesse essere stato sottoterra per più di ventitré anni. E lei guardava il teschio con adorazione mentre, in base alle indicazioni sceniche, avrebbe dovuto lasciarlo cadere disgustata”.

“Ma dimmi tu che idee! Logico che fosse affascinata. Vedere il suo futuro condensato nel passato. Perché il bello di contemplare un teschio è che, mentre lo guardi, quello è il momento in cui il passato e il futuro si uniscono nel presente – solo un teschio può farti vedere quello che eri e quello che sarai. Alessandro morì, Alessandro fu sepolto, Alessandro tornò polvere, la polvere è la terra, con la terra facciamo i nostri pagamenti a cottimo e le nostre smorfie per tenere il conto dei nostri lamenti – e questo è tutto – l’autoritario Cesare morto, morto e di nuovo polvere. Guarda, quando i miei amici hanno saputo del crollo – alcuni hanno sorriso e mi hanno augurato la morte. Erano felici. Uno di loro ha detto:

“Alla fine, l’Impero sta crollando. È l’inizio del rovesciamento. E che disfatta”.

“Se loro sono caduti, non per questo tu ti alzerai. Perché sei così felice?”

“Perché dalla caduta si alzeranno altre torri”.

“Bene. Bene”, gli ho detto. “Ma le torri che si alzeranno non saranno quelle che ridevano quando cadevano le nostre. Non è la risata ad alzarsi. Quello che si alza è il sipario”.

“È la fine del mondo. Ero esaltato da tutta la situazione. Ebbene, se stiamo tutti per morire, venderemo cara la pelle, merda, ma io che ne so? È una bomba atomica – la fine del mondo – la fine del millennio? Fine della paura di essere licenziati – per refusi o lentezze – digressioni o recessioni – e che modo di essere licenziati – scoppiare fra le fiamme – senza un preavviso di due settimane – e senza sei mesi di disoccupazione – e senza aspettativa, ferie o riposi compensativi – senza una parola su cosa sarebbe accaduto – in una gloriosa mattina – mentre la natura continuava il suo corso indifferente all’uomo – allora giunse il momento in cui quel cielo limpido diventò un nero, disgustoso buco dell’inferno – di una notte – con valigie, un pneumatico, carte, computer, scrivanie, e corpi che cadono – e persone che corrono e urlano”.

“Fanculo! Tieniti il tuo lavoro. Tieniti le tue strisce. Voglio la mia vita indipendentista. Sto entrando in affari. Sto per mettermi in proprio. Ma poi guardo il conto in banca e vedo uno zero rosicchiato. Non posso andarmene. Non ancora, almeno. Mi guardo allo specchio. Vedo che sto invecchiando, ma non faccio passi avanti. In teoria ero il capo di me stesso – sono un buon capo – e il mio capo – lo sa – ecco perché sta sempre a controllarmi, mi opprime, controlla i miei orari. In giro fino a tardi ieri sera? Perché ero ancora in ritardo stamattina e non sono pettinato e sono stressato e non so cosa fare. Cosa dovrei fare – prendere una pistola e spararmi – o prendere un tranquillante e dormire? Perché dimostrargli che hanno ragione? Capisci, che persona complicata, che agitatore? Sempre in guardia. Perché devi stare così sulla difensiva – mi dicono sempre – nessuno ti sta assalendo. Perciò cosa gli dico – sono stato sfruttato e maltrattato – sottovalutato – sottopagato – dato per scontato, non ascoltato, non preso sul serio, rifiutato e deprivato. Stiamo meglio adesso di vent’anni fa? È quello che chiedono sempre i politici quando si mettono le mani in tasca – e tirano fuori qualche moneta nel pugno e la fanno suonare come un campanello. E ti fanno l’occhiolino, come se tu fossi complice di un crimine: ‘Perché stiamo insieme in quest’affare’. O sopravviviamo, o inondiamo il palcoscenico di lacrime, soltanto per un guscio d’uovo. Lo sanno, e noi lo sappiamo meglio – non che le cose non siano migliori. Chi sono io per giudicare? E non mi interessa se siamo migliori o peggiori. Sono più cinico di così. So cosa devo aspettarmi, e anche io faccio l’occhiolino – come un complice in un crimine. Ma non mi si dicano bugie. Non strizzate l’occhio e non dite che le cose sono migliori, mentre non lo sono. O che erano meglio mentre non lo erano. Vedo quello che vedo con i miei occhi – non con i vostri – e questo non vuol dire che non approvo i vostri occhiolini. Strizzo l’occhio quando lo strizzate a me – e se piangete – piangerò con voi – ma non mentirò a me stesso. Quello che vedo è quello che vedo – ma permettetemi di non essere d’accordo. Mi piacciono le vostre bugie – e il modo in cui le dite ancora di più – perché amo l’industria dello spettacolo”.

[1] Scheletro, cosa ne hai fatto dell’amore [NdT].

“Vedute da Ground Zero” è tratto da Storie 55/2005 traduzione di Laura Petruccioli

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“Vedute da Ground Zero” è tratto da Storie 55/2005
traduzione di Laura Petruccioli

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Portrait & Video by Michael Somoroff, 2011.

American Voces @ John Hopkins

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JH

Giannina Braschi
September 26, 2013, 5:15pm
American Voces Authors Series
Department of German and Romance Languages and Literatures
The Johns Hopkins University
3400 N. Charles St.
Baltimore, MD 21218

For more details contact: americanvoces.jhu@gmail.com

Hispanic Writers Series “American Voces” Presents Giannina Braschi, Junot Díaz, and Cristina García

http://hub.jhu.edu/2013/04/05/junot-diaz-american-voces